Natale 2017

Del Natale mi piace soprattutto una cosa: fare i regali.

Ci penso mesi prima, attentamente, a quali regali fare. Non so dire perché mi piaccia così tanto, certa gente nemmeno se li scambia, molti la vedono una fastidiosa incombenza, altri un inutile spreco di denaro. Quelli che si danno al compleanno non sono la stessa cosa: spesso sono regali fatti in comune con altre persone, in cui difficilmente c’è libertà di scelta. A quanti brutti regali ho partecipato! Mi sarei ricacciata volentieri il portafoglio in borsa, piuttosto che dare certe cazzate.

A Natale invece ci sono solo io. Io e la persona a cui ho deciso di regalare una fetta del mio tempo e del mio denaro. Ci vedo uno dei pochi momenti in cui posso dire a qualcuno a cui voglio bene: ecco, questo è  per te, solo per te. Ho cercato questa cosa tra tante altre cose, non è niente di esagerato, ma ho voglia di darti un pensiero che ti rimanga, che mi faccia ricordare, che ti dica in qualche modo che per me conti.

Tutto qui.

Ecco perché mi piace il Natale. Poi certo, ci sono le luci. A chi non piacciono le luci? Quando sento le persone che polemizzano sull’atmosfera natalizia mi viene un po’ da ridere. Anche a me fa cagare la forzata bontà, il pietismo, il messaggino scritto perché si deve, le cene obbligate con colleghi con cui il resto dell’anno ti saluti a malapena. Sono piccole ipocrisie sociali che raggelano chiunque. Per cui no, non mi sento una di quelle allucinate che vedono nel 25 dicembre il riscatto di un anno di malinconie o cattiverie. Il Natale, anzi, spesso tira fuori il peggio delle persone: è il periodo più ansiogeno e depressivo dell’anno, se mal gestito. E capisco benissimo quanto sia difficile viverlo con la giusta dose di serenità: si vive dicembre con la speranza che finisca presto passando inosservati.

A me salva proprio l’obiettivo dei regali. L’immagine di chi li scarterà, del suo sguardo, del mio. L’altro giorno ho pensato che ci sono state diverse persone nella mia vita a cui ho smesso di farli. Un gruppetto sparuto a cui una volta dedicavo quella piccola parte di me, a cui incartavo malamente il pacchetto (dio solo sa quanto non sono capace), a cui preparavo il fiocco, i colori da abbinare, il biglietto giusto.

Chissà se qualcun altro ci pensa mai, ai regali che si è smesso di fare. Ai Natali non festeggiati, alle cose che si è smesso di dire. Ci sono giorni nella vita che a un certo punto, semplicemente, si fermano come le pedine del domino, quando fai male i calcoli e invece di cadere perfettamente in sequenza, si fermano a metà disegno.

 

Io odio Peter Pan

Peter_PanIo odio Peter Pan.

L’ho sempre odiato, in ogni sua forma. Uno sfigato in calzamaglia che non si assumerà mai le proprie responsabilità, che tortura un povero pirata monco e si permette pure di fare lo sbruffone con Wendy. Sopracciglia apprezzabili, ma per il resto fuffa.

Ma in fondo è tutta la storia di Peter Pan che ho sempre odiato, non solo lui in quanto tale. Ogni personaggio, dai bambini fastidiosamente innocenti a Campanellino, usata solo per la magggica polverina che produce.

Peter Pan è un mito di cartapesta, il simbolo dei buoni a nulla, dei furbetti, degli insicuri e di quelle persone talmente coerenti con loro stesse da risultare ridicole di fronte al mondo che cambia. La leggenda di Peter Pan è la scorciatoia dei poveri di spirito, cristallizzati per sempre nelle proprie decisioni, ammuffiti dietro una patina di finta giovinezza. Perché può davvero essere definito giovane Peter Pan?

È un freak, un Dorian Gray senza finale tragico, un vecchio pervertito nascosto dietro una maschera dalla pelle liscia, supponente abbastanza da credere di poter guidare in eterno un gruppo di bambini sperduti altrettanto disadattati come lui. Un baluardo della pedofilia, personificato in quest’elfo vecchio dentro e fuori immutabilmente giovane, piccolo, fresco. Giocatore perpetuo. Una storia dove l’unica protagonista femminile, Wendy, è costretta, guarda caso, a fare da mamma a questi poveracci, fino a che il buon senso la ripiglia.

Non è un caso che Peter Pan sia un uomo.

Una donna non avrebbe mai potuto incarnare il mito dell’eterna bambina. È fisiologicamente impossibile, per una donna, non invecchiare. Una donna invecchia sempre, costantemente. Ci sono giorni in cui invecchia anche di più.

Una donna invecchia già da piccola, quando a scuola i bambini la rincorrono. Quando cresce e inizia a capire il suo corpo. Una donna invecchia quando si innamora per la prima volta. Quando scrive sul diario il nome del ragazzo che non la corrisponde, lasciando dietro di sé la sua dignità insieme all’inchiostro. Una donna invecchia quando aspetta che il telefono squilli, quando il telefono squilla e quando risponde. Una donna invecchia quando si trucca, quando per strada le urlano dietro e sull’autobus la mattina le sfiorano il sedere abbastanza da farla scostare. Invecchia per le cose importanti e per quelle futili. E se un giorno non volesse invecchiare, il mondo la guarderà imbarazzato. Anch’io sto invecchiando a scrivere tutto questo.

A Peter Pan e ad ogni altro suo alter ego reale, esclusivamente maschile, è concesso di rimanere bambino solo perchè le persone guardano con benevolenza la sua essenza fanciullo, registrandola come una caratteristica spiazzante, dolce, lodevole. Guarda, uno che è rimasto puro e innocente!

 

Alla fine della storia però, Wendy decide di crescere. È un’anziana signora piena di rughe. Pensa a Peter Pan rimasto bamboccione nell’Isola che non c’è e ciò nonostante non rimpiange nulla della sua scelta. Un motivo ci sarà, penso.

 

 

Buon duemilae…

Non so voi, ma da quando ho finito le superiori, da quando cioè ho concluso la fase “adolescenza”, gli anni si sono succeduti senza veri e propri punti di riferimento. Sono diventati improvvisamente indistinguibili, spalmati sulla mia esistenza tanto che mi ci vuole qualche minuto per capire bene cos’ho combinato nel 2012, nel 2009, nel 2013.

Analizzo questa consapevolezza con un leggero stupore: è questa la vita? Un susseguirsi di giorni, mesi, anni di cui a un certo punto non si riescono a distinguere i contorni? Non lo so se questo spaesamento nasce da una certa propensione a voler catalogare, etichettare, riporre sugli scaffali della mente determinate annate: questa sì, questa no, questa bene, questa male.

Mi guardo indietro e vedo più che altro un insieme di momenti incastrati qua e là tra gli spessi strati di ordinaria quotidianità. Capodanni privati ed intime epifanie di giorni qualunque solo all’apparenza, ma ben fissati nella mia mente a seconda di una sensazione, una situazione, un punto e a capo.

Allora hanno ragione gli amanti delle citazioni, che sui social network dicono che la vita è fatta di attimi, non certo di annate, non siamo vino nelle botti lasciato poi a decantare a seconda del periodo. Siamo semplicemente qualcosa che scorre attraverso quel concetto chiamato tempo, le stagioni, le piccole sicurezze scandite da una lancetta.

Scusate il post al gusto Osho, oggi il 2016 per me comincia così, con grandi “ommmmm” e panta rei. E, così come nel 2015, continuo a sperare nel karma e nei suoi potenti effetti.

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I bidelli della mia vita

Questo post è uscito spontaneo dopo una conversazione (meglio: un monologo) che un bidello ha voluto intrattenere con me qualche giorno fa.

Mentre sproloquiava cose senza senso, accennando alla sua vita (“piena di problemi”), al suo rapporto con le altre persone (“c’è gente che mi aiuta ma a me non interessa”) e con la società (“mi emargino da sempre”), senza minimamente guardarmi in faccia ma soffermandosi altresì su punti invisibili nella stanza dove ci trovavamo, ho smesso di ascoltarlo e ho cominciato a riflettere.

Per dieci minuti (tanto è durato il surreale discorso) ho ragionato sulla tipologia di bidelli che al momento ho conosciuto nella mia vita.

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A meno di sorprese, al momento posso dividere questa categoria in tre grandi gruppi.

GLI PSICOPATICI

Quelli che, come il soggetto sopradescritto, hanno evidenti turbe psichiche di piccola o grande gravità. So per certo che alcune persone con disagi mentali di diversi tipi vengono chiamate a svolgere questo tipo di attività attraverso cooperative specializzate, per cui non sono particolarmente sorpresa. Tuttavia, nei miei (pochi) anni di lavoro all’interno del mondo scolastico, non so come sono diventata soggetto prediletto di questo tipo di personaggi, figure invisibili fino a quando non gli rivolgi la parola per un cortese saluto. Da quel momento ti vedranno come interlocutore scelto su cui riversare qualunque –e dico qualunque- cosa passi loro per la mente, ovviamente senza alcun filo logico. Un “Ulisse” di Joyce perpetuo, di cui tu ti ritrovi inconsapevole spettatore.

Mi ricordo ancora annuire meccanicamente al racconto di una bidella (avrà avuto una trentina d’anni, ne dimostrava quindici di più), sullo svolgersi del suo intervento per la rimozione di una ciste sulla schiena, comprensiva della descrizione del quotidiano disinfettare, aiutata dalla madre. Una mezz’ora di narrazione, passata a spazzare lo stesso angolo dell’aula con nervosa compulsività.

GLI ONNIPOTENTI

A mio avviso la categoria peggiore. Quelli che la scuola è loro, ogni banco è loro, ogni armadio, ogni gesso, ogni spazzolone. D’altronde i professori vanno e vengono, e loro no: qualcosa vorrà pur dire. La scuola è il loro territorio e tu solo un fastidioso ospite. Sbuffano alle tue richieste, ti fanno sentire costantemente di troppo, tendono a fare la spia per qualunque, minimo problema. Che sia donna o uomo, non cambia: ho conosciuto gli esponenti di entrambe le categorie e il modus operandi non si discosta: tendono a essere pettegoli, nervosi, costantemente sulla difensiva. Cammini per i corridoi e senti i loro occhi conficcati sulla schiena, a volte riesci a percepirli anche attraverso i muri.

I BIDELLI PER CASO

Quelli che erano nati per fare altro, ma la vita li ha portati a pulire i banchi e suonare la campanella. Devo ammettere che sono i più spassosi, quelli che ho conosciuto io sono soprattutto meridionali, e sono quelli che prendono questo tipo di lavoro con maggiore serenità. Sono peraltro i personaggi più amati dagli studenti, con cui di solito hanno un rapporto amichevole e, proprio per questo, sono quelli che i ragazzi si ricorderanno con piacere una volta usciti dalla scuola.

Ne annovero due in particolare: un napoletano gentilissimo, sovrappeso e dallo sguardo dolce, che riusciva a fare da paciere in qualunque situazione di conflitto tra gli studenti solo con la sua presenza.

L’attore mancato dalle sopracciglia perfette, che ha passato tutta una ricreazione a raccontarmi della sua favolosa esperienza sul set di un film di Pupi Avati e che alla mia domanda “Perché hai lasciato Roma?” mi ha semplicemente risposto “Non ce la facevo più, ma voglio tornare sul set, questo lavoro è solo una parentesi”. Non vedo l’ora ci faccia un film.

The Visit

Ieri per la seconda volta in una settimana ho visto The Visit al cinema. Trovo sia uno dei migliori film dell’anno, oltre che uno dei migliori di Shyamalan, che a parer mio è tornato col botto.

Ne ho scritto qualcosa in una testata locale, riporto qui le mie impressioni.

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Bisogna fare attenzione, quando si parla di M. Night Shyamalan. Bisogna infatti avere coscienza del fatto che moltissime persone lo considerano un registucolo infantile, un po’ sfigato, incapace di sollevarsi dopo una serie di rovinose cadute (“E venne il giorno”, “L’ultimo dominatore dell’aria”, “After Earth”) e di replicare il successo de “Il Sesto Senso”. Per queste persone Shyamalan rimane il regista del film sul “bambino che vede la gente morta”, e niente più. Il resto è fuffa, imbroglio, mediocrità malcelata.

Dal canto mio, faccio parte di quell’altra schiera di spettatori. Quelli che vedono in lui uno dei migliori registi contemporanei in circolazione, ingiustamente sottovalutato e incompreso, capace di utilizzare il mezzo cinematografico nella maniera più significativa possibile, laddove è proprio il connubio tra significati e significanti lo strumento espressivo su cui si basa tutta la sua filmografia.

 

Per parlare quindi in maniera seria e completa di Shyamalan è altresì necessario conoscerlo molto bene e riconoscerne il reale valore dietro il chiacchiericcio e il pregiudizio da spettatore del sabato sera (con tutto il rispetto della categoria). Perché il cinema di Shyamalan, seppur all’apparenza semplice e un po’ bamboccione, non ha davvero nulla di innocente. Ed è probabilmente questo continuo scherzare col pubblico, abbagliarlo, prenderlo un po’ in giro con precisi stilemi di genere che l’ha condannato agli occhi di una buona fetta di spettatori.

“The Visit”, l’ultima sua fatica, non fa eccezione. Due fratelli vanno a trovare i nonni per la prima volta. In poco tempo si rendono conto che qualcosa non quadra, e lo scenario zuccheroso come un dolcetto appena sfornato si trasforma in breve tempo in una melassa indigesta, marcia, mortale.

Presentato come un horror, il film si ispira chiaramente a buona parte della letteratura cinematografica di genere per modi e per temi: l’uso del found footage, la casa isolata, la solitudine, la pazzia inspiegabile. A ciò si aggiungono i riferimenti letterari, in primis “Hansel e Gretel”, ritrovando nella figura dell’anziano la metafora delle nostre paure ancestrali: il timore dell’oblio, della demenza, della perdita di controllo (della mente e del proprio fisico), della morte. I nonni sono pazzi o semplicemente vecchi?

Ciò nonostante, non dobbiamo dimenticarci di chi dirige la storia, e Shyamalan, come detto, non è certo un regista qualunque. Un occhio attento riconoscerà una serie di citazioni e rimandi all’intera sua poetica, a partire dal perturbante, quello spaesamento che getta personaggi e spettatori in un’inquietudine senza appigli. Siamo in balìa di ciò che non conosciamo e soprattutto di ciò che fino a poco prima ritenevamo familiare e certo. Esattamente come, ai tempi di “The Village”, dubitavamo della nostra casa, in “Unbreakable” e “Lady in the water” di noi stessi, in “Signs” di Dio, in “E venne il giorno” della stessa natura, il cinema shyamalaiano è un continuo destabilizzare, provocare, dare e togliere, all’improvviso.

È poi un regista che conosce bene i suoi polli, cioè noi, e sa bene che per farci rimanere incollati alle poltrone è anche necessario rassicurarci, ogni tanto. Ecco allora l’ironia, una battuta, una scena particolarmente divertente, spesso volta al grottesco, a cui noi possiamo reagire solo in due modi: o ridendo di lui, imbarazzati, incapaci di gestire la tensione, o ridendo con lui, provando a fidarci, stare al gioco e, incalzati dal ritmo, intenti a camminare sul filo della tensione, in bilico, sulla nostra sospensione dell’incredulità.

Non è un caso che, quando ho visto “The visit” al cinema qualche giorno fa, una buona parte della sala chiacchierasse senza freni durante la visione, decidendo a nome di tutti che quel film non avesse diritto all’aura di sacralità data dal buio e dal rito cinematografico. Le maleducatissime persone commentavano, ridacchiavano, tentavano fisicamente di controllare la storia, incapaci evidentemente di padroneggiarla. Per zittirle c’è voluto un “silenzio” ben assestato da parte di una coraggiosa spettatrice, ma soprattutto la firma shyamalaiana per eccellenza, il suo twist, il colpo di scena che ha definitivamente tolto la rete di protezione a noi improvvisati equilibristi.

Pensavamo come sempre di averlo capito, e invece eccoci lì, confusi, sconvolti, occhi sgranati di fronte all’incalzare della storia, finalmente ammutoliti. Ed ecco trionfare il regista, utilizzando ancora una volta ogni mezzo a sua disposizione per affondare il colpo: la messa in scena (la cantina, come in “Signs”), la luce (una torcia, sempre come in “Signs”), i rumori e la musica (come in “The Village”), il riflesso di uno specchio (o dell’acqua di “Lady in the water”), la finta amatorialità delle inquadrature.

Il risultato è epifanico: quei dettagli con cui Shyamalan ci aveva fatto ridere, disseminati lungo la trama come i sassolini di Pollicino, ritrovano alla fine un senso compiuto, definito, pieno.

Così come in ogni sua pellicola Shyamalan ci rivela il modo in cui i suoi personaggi riescono a superare le proprie paure, costretti dagli eventi certo, ma capaci proprio per questo di reagire, così anche il pubblico infine risponde ritrovando il senso della storia, riappropriandosi del proprio (auto)controllo. E solo chi non ha capito il suo gioco si sentirà in diritto di uscire dalla sala sicuro, convinto di non essersi fatto fregare, ignorando stupidamente l’evidenza di esserci invece cascato in pieno, ancora, di nuovo.

Ecco perché “The Visit” è un film riuscito, perfetto e circolare. Ecco perché Shyamalan è tornato e vince su di noi, in barba a chi lo pensava finito.

Supersonic

tears

Vorrei dire che sono in una fase della mia vita in cui faccio molta introspezione, come fanno molti, poi però non saprei come giustificare gli ultimi trentuno anni di seghe mentali. Magari la verità è che non vivo alcuna fase, perché faccio introspezione da quando sono nata, quindi direi che il mio è più uno stile di vita, con picchi più o meno intensi.

 

E niente, pensavo a quei momenti in cui, mentre ci si guarda dentro, ci si perde un pochino, e si prova a cercarsi in giro. A volte ci si prova a trovare negli altri, a riconoscersi, ma inevitabilmente ci si perde anche lì, perché va a capire se gli altri sono pronti a riflettere la nostra immagine così come pensiamo noi, anche se nella nostra testa non ha una sagoma prestabilita. La frustrazione è dietro l’angolo, col conseguente frantumarsi in ulteriori, piccoli pezzettini.

 

Capita dunque che a un certo punto lo sguardo debba obbligatoriamente tornare al punto di partenza, alla base, cioè a noi. Lo scopo è che quell’immagine che ci vediamo riflessa dentro debba trovare una contorno, seppur abbozzato, possibilmente con una consistenza a noi piacevole, perché altrimenti non c’è alcuno scopo nel ritrovarsi e tanto vale perdersi ancora di più. È una scelta anche quella. Una scelta che però io non ho intenzione di seguire.
Ritrovarmi e ricompormi è un po’ ciò ha caratterizzato questi mesi, con costanza più o meno attiva. È un processo interessante, spesso necessariamente doloroso, ma anche curioso e, a tratti, divertente. Sta venendo fuori una cosa carina.

Quelle intorno a me. La ragazza boho.

Tra le numerose categorie umane che popolano il mondo, quella delle adolescenti e delle poco-più-che-ventenni, attrae da sempre la mia curiosità. Non lo so se è una cosa che accade perché ormai l’adolescenza l’ho superata da un pezzo, ed è diventato quindi fisiologico osservare gli atteggiamenti delle ragazze più giovani di me. Magari è così, ma è anche vero che già quando ero io una poco-più-che-ventenne osservavo con interesse i modi di fare di certe mie coetanee. Sarà quindi una caratteristica della mia personalità, quella di guardare come affrontano la vita il resto delle donne.

Si apre dunque con questo post una serie di analisi su certe tipologie umane, soprattuttto femmine, su cui mi sono imbattuta o mi imbatto di tanto in tanto. Non sono analisi antropologiche, non sono riflessioni profonde sulla nostra società. Sono opinioni che ho maturato osservando certi fenomeni naturali.

Non potevo non cominciare parlando delle ragazze boho, le mie preferite. Sono giovinastre che si atteggiano a donna vissuta, fatta e finita, con abiti e atteggiamenti che sembrano raccontare una vita già piena di esperienze, di riflessioni al chiaro di luna, di fumo di sigarette, immancabile alcool e nottate passate a osservare l’alba tra l’erba della brughiera inglese.

Le riconosci bene: sono quelle che vanno in giro senza reggiseno, magari con maglioni informi e scarpe grosse. Quelle coi capelli scarmigliati, con poco trucco o con solo le labbra ben contornate da rossetti rigorosamente scuri. Sono ragazze emaciate, le puoi trovare immerse nelle letture di grandi filosofi o ferme a contemplare un quadro di Rothko. Citano i grandi pensatori, ascoltano Battiato, o tirano fuori musicisti sconosciuti famosi solo in qualche circolo culturale di Nantes. Hanno una predilezione per la Novelle Vague, a volte guardano all’Oriente. Leggono gli autori russi.

La poesia per queste ragazze è il pane quotidiano. Ma anche la fotografia, specialmente quella dai colori poco saturi, se non addirittura quella in bianco e nero. Perché le ragazze boho amano fermare l’attimo, ma non scattano semplicemente foto. Ogni loro produzione creativa è l’atto finale di un pensiero che ha radici nella loro intimità più nascosta e qualunque fruitore si trovi nei paraggi deve ritenersi fortunato nel potervi accedere.

Sì perché, questo non l’ho detto, ma la ragazza boho deve avere necessariamente un fruitore. Possibilmente uomo. Perché altrimenti l’intero universo di citazioni, rimandi e tramonti perde improvvisamente di senso, se non è percepito da qualcuno che non possiede ormoni femminili, così volubili e mestruati. Se ha una decina d’anni in più, poi la percezione pare si acuisca meglio.
La sfera sessuale nelle ragazze boho è potentissima e attrae molto, ma per lei è, all’apparenza, solo un aspetto marginale della sua essenza. Lei non vive per attrarre e, se succede, è del tutto inconscio.

Da fuori, in realtà, il meccanismo è molto chiaro: ciò che sembra casuale, istintivo, guidato da pulsioni involontarie e ancestrali, appartiene a un disegno preciso, banalmente chiamato seduzione. Sì badi bene però: la ragazza boho non lo ammetterà mai. Non vuole attrarre in maniera plateale. Vuole farlo sottilmente, attraverso un sottobosco di cliché vecchi già ai tempi di Baudleaire e che, data la sua età, nemmeno lei sa essere abusati. Lei pensa di poterli gestire con originalità e innovazione. E il fruitore bisognoso di estraniarsi da una società ipersessuata, subisce di buon grado.

Il suo animale preferito: la falena

Il colore: il rosso bordeaux

Segno distintivo: il capezzolo che sbuca dalla maglia tricot

Come cadere ai suoi piedi: mandatele una foto delle vostre mani che un vostro amico vi avrà scattato mentre vi state abbottonando la camicia a righine sottili. Più si vedono le ossa delle nocche, meglio è. Fatevi immortalare mentre suonate uno strumento (no il pianoforte che è mainstream, vietata la chitarra, quella semmai la suona lei, che certamente nella sua lunga vita annovera il saper suonare uno strumento a corda). Citatele una frase dell’ultimo libro che avete letto. Se non ve ne ricordate manco una, basta che buttiate dentro le parole: malinconia, nebbia, impulso, sublime, una qualunque parola in francese, parolacce comprese (le adorano in un’altra lingua – non spagnolo che fa burino). Non citatene più di dodici.

Cosa fare quando avete conquistato una ragazza boho? Ovviamente andateci a letto prima che cresca come tutte, e fumate insieme tra le lenzuola ruvide (ma non tra la brughiera inglese, che lì ci son sterpaglie e poi un incendio non lo fermate più). Non permettetele mai di fotografarvi, che poi vi risucchia l’anima per poi spacciarla per sua sui social network.

Se fossi una canzone

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L’altro giorno pensavo al gioco del “Se fossi”, ce l’avrete sicuramente presente.

E niente, ho pensato che se fossi una canzone probabilmente sarei “Don’t let me be misunderstood”, perché è una di quelle canzoni che ogni volta che mi capita all’orecchio, devo fermarmi e ascoltarla. La trovo ipnotica.

Mi piace qualunque versione a parte quella di Joe Cocker, ma sostanzialmente perché non mi fa impazzire Joe Cocker. Ciò non vuol dire che questa sia la mia canzone preferita di tutti i tempi, ma semplicemente che mi ritrovo nella melodia, nel testo, nelle vocali allungate del ritornello.

C’è qualcosa di malinconico e tuttavia giocoso nel ritmo di quel pianoforte che mi spiega e mi racconta e mi descrive.

Le epifanie sono anche questo.

Selfie and Love

Sì, io mi faccio i selfie.
Lo ammetto, senza troppa vergogna, e spiego anche perché.

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Perché mi piace vedere come cambia il mio volto con la luce. Perché mi piace vedere come mi sta un trucco particolarmente accurato che mi sono appena fatta. Perché mi piace vedermi da fuori, al di là di come mi vedo riflessa, vedere cosa vedono gli altri quando parlo, faccio una smorfia, sorrido. Perché mi piace vedere come invecchio, se spuntano rughe inaspettate da qualche parte, se ho un capello bianco in più sfuggito alla mia quotidiana vivisezione facciale.

Mi faccio i selfie, ma la maggior parte di questi rimangono all’interno del mio cellulare. Spesso li cancello subito, altre volte, quelli che ritengo più di mio gusto, li tengo per riguardarmeli. Mi ricordano un periodo della mia vita, un momento, un pensiero. E magari rivedere la mia faccia, come stavo quando quel giorno ho deciso di fotografarmi, ricorda a me stessa come stavo, per rivivere una sensazione o scacciarla per sempre. Ritornare a quel momento, a cosa dicevano davvero quegli occhi, cosa davvero stavo guardando quando mi sono fatta quella foto. È un lavoro che parte e finisce con me stessa, che ha molto a che fare con la mia intimità. Per me farsi un selfie vuol dire questo.

Poi, a volte, mi piace condividere una foto in cui sono venuta particolarmente bene, per divertirmi. Devo davvero spiegarvi io perché si pubblicano online i propri autoscatti? Suvvia, c’è un mondo intero di articoli in cui fior fior di psicologi analizzano con grande profondità la deriva narcisistica della società, l’importanza che ha assunto il qui e l’ora, il come, il dove, se tu ci sei dentro e lo dimostri con un clic.

Tuttavia la cosa che mi fa ultimamente sorridere quando mi capita di pubblicare in qualche social una mia foto, sono i commenti di quelli che prendono in giro questa mia particolare vena vanitosa. Criticare chi si fa i selfie pensavo fosse una moda superata da qualche anno, tuttavia c’è chi ancora, nel 2015, si permette di giudicare cosa fai col tuo cellulare. Finché non si supera il buon senso o il limite del buon gusto, e non si tempesta il cyberspazio con foto della propria facciona (e anche in quel caso, sticazzi), credo sia davvero ridicolo prendere per il culo un atteggiamento che – sono convinta – molti hanno fatto almeno una volta nel buio nella propria cameretta. Non tirate fuori le solite esagerazioni, ripeto, anch’io ho Instagram e vedo bene cosa porta l’ossessione dell’autoscatto. Non mi ritengo in nessun modo paragonabile a questi casi umani.

Trovo davvero più imbarazzante chi sta dall’altra parte, e commenta con inutili banalità chi decide di gestire il proprio aspetto come più gli aggrada. Sembra poi che a certi livelli la gestione della propria immagine non sia particolarmente apprezzata. È come se a certe persone non sia concesso giocare con la propria vanità, come se fosse indice di chissà quale superficialità, ostentazione, stupida boria.

Penso che in molti dovrebbero rivedere il proprio rapporto con l’estetica. La propria e quella altrui. Se non altro per vivere con meno fatica e stizza il mondo che sta loro attorno.