Supersonic

tears

Vorrei dire che sono in una fase della mia vita in cui faccio molta introspezione, come fanno molti, poi però non saprei come giustificare gli ultimi trentuno anni di seghe mentali. Magari la verità è che non vivo alcuna fase, perché faccio introspezione da quando sono nata, quindi direi che il mio è più uno stile di vita, con picchi più o meno intensi.

 

E niente, pensavo a quei momenti in cui, mentre ci si guarda dentro, ci si perde un pochino, e si prova a cercarsi in giro. A volte ci si prova a trovare negli altri, a riconoscersi, ma inevitabilmente ci si perde anche lì, perché va a capire se gli altri sono pronti a riflettere la nostra immagine così come pensiamo noi, anche se nella nostra testa non ha una sagoma prestabilita. La frustrazione è dietro l’angolo, col conseguente frantumarsi in ulteriori, piccoli pezzettini.

 

Capita dunque che a un certo punto lo sguardo debba obbligatoriamente tornare al punto di partenza, alla base, cioè a noi. Lo scopo è che quell’immagine che ci vediamo riflessa dentro debba trovare una contorno, seppur abbozzato, possibilmente con una consistenza a noi piacevole, perché altrimenti non c’è alcuno scopo nel ritrovarsi e tanto vale perdersi ancora di più. È una scelta anche quella. Una scelta che però io non ho intenzione di seguire.
Ritrovarmi e ricompormi è un po’ ciò ha caratterizzato questi mesi, con costanza più o meno attiva. È un processo interessante, spesso necessariamente doloroso, ma anche curioso e, a tratti, divertente. Sta venendo fuori una cosa carina.

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