The Visit

Ieri per la seconda volta in una settimana ho visto The Visit al cinema. Trovo sia uno dei migliori film dell’anno, oltre che uno dei migliori di Shyamalan, che a parer mio è tornato col botto.

Ne ho scritto qualcosa in una testata locale, riporto qui le mie impressioni.

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Bisogna fare attenzione, quando si parla di M. Night Shyamalan. Bisogna infatti avere coscienza del fatto che moltissime persone lo considerano un registucolo infantile, un po’ sfigato, incapace di sollevarsi dopo una serie di rovinose cadute (“E venne il giorno”, “L’ultimo dominatore dell’aria”, “After Earth”) e di replicare il successo de “Il Sesto Senso”. Per queste persone Shyamalan rimane il regista del film sul “bambino che vede la gente morta”, e niente più. Il resto è fuffa, imbroglio, mediocrità malcelata.

Dal canto mio, faccio parte di quell’altra schiera di spettatori. Quelli che vedono in lui uno dei migliori registi contemporanei in circolazione, ingiustamente sottovalutato e incompreso, capace di utilizzare il mezzo cinematografico nella maniera più significativa possibile, laddove è proprio il connubio tra significati e significanti lo strumento espressivo su cui si basa tutta la sua filmografia.

 

Per parlare quindi in maniera seria e completa di Shyamalan è altresì necessario conoscerlo molto bene e riconoscerne il reale valore dietro il chiacchiericcio e il pregiudizio da spettatore del sabato sera (con tutto il rispetto della categoria). Perché il cinema di Shyamalan, seppur all’apparenza semplice e un po’ bamboccione, non ha davvero nulla di innocente. Ed è probabilmente questo continuo scherzare col pubblico, abbagliarlo, prenderlo un po’ in giro con precisi stilemi di genere che l’ha condannato agli occhi di una buona fetta di spettatori.

“The Visit”, l’ultima sua fatica, non fa eccezione. Due fratelli vanno a trovare i nonni per la prima volta. In poco tempo si rendono conto che qualcosa non quadra, e lo scenario zuccheroso come un dolcetto appena sfornato si trasforma in breve tempo in una melassa indigesta, marcia, mortale.

Presentato come un horror, il film si ispira chiaramente a buona parte della letteratura cinematografica di genere per modi e per temi: l’uso del found footage, la casa isolata, la solitudine, la pazzia inspiegabile. A ciò si aggiungono i riferimenti letterari, in primis “Hansel e Gretel”, ritrovando nella figura dell’anziano la metafora delle nostre paure ancestrali: il timore dell’oblio, della demenza, della perdita di controllo (della mente e del proprio fisico), della morte. I nonni sono pazzi o semplicemente vecchi?

Ciò nonostante, non dobbiamo dimenticarci di chi dirige la storia, e Shyamalan, come detto, non è certo un regista qualunque. Un occhio attento riconoscerà una serie di citazioni e rimandi all’intera sua poetica, a partire dal perturbante, quello spaesamento che getta personaggi e spettatori in un’inquietudine senza appigli. Siamo in balìa di ciò che non conosciamo e soprattutto di ciò che fino a poco prima ritenevamo familiare e certo. Esattamente come, ai tempi di “The Village”, dubitavamo della nostra casa, in “Unbreakable” e “Lady in the water” di noi stessi, in “Signs” di Dio, in “E venne il giorno” della stessa natura, il cinema shyamalaiano è un continuo destabilizzare, provocare, dare e togliere, all’improvviso.

È poi un regista che conosce bene i suoi polli, cioè noi, e sa bene che per farci rimanere incollati alle poltrone è anche necessario rassicurarci, ogni tanto. Ecco allora l’ironia, una battuta, una scena particolarmente divertente, spesso volta al grottesco, a cui noi possiamo reagire solo in due modi: o ridendo di lui, imbarazzati, incapaci di gestire la tensione, o ridendo con lui, provando a fidarci, stare al gioco e, incalzati dal ritmo, intenti a camminare sul filo della tensione, in bilico, sulla nostra sospensione dell’incredulità.

Non è un caso che, quando ho visto “The visit” al cinema qualche giorno fa, una buona parte della sala chiacchierasse senza freni durante la visione, decidendo a nome di tutti che quel film non avesse diritto all’aura di sacralità data dal buio e dal rito cinematografico. Le maleducatissime persone commentavano, ridacchiavano, tentavano fisicamente di controllare la storia, incapaci evidentemente di padroneggiarla. Per zittirle c’è voluto un “silenzio” ben assestato da parte di una coraggiosa spettatrice, ma soprattutto la firma shyamalaiana per eccellenza, il suo twist, il colpo di scena che ha definitivamente tolto la rete di protezione a noi improvvisati equilibristi.

Pensavamo come sempre di averlo capito, e invece eccoci lì, confusi, sconvolti, occhi sgranati di fronte all’incalzare della storia, finalmente ammutoliti. Ed ecco trionfare il regista, utilizzando ancora una volta ogni mezzo a sua disposizione per affondare il colpo: la messa in scena (la cantina, come in “Signs”), la luce (una torcia, sempre come in “Signs”), i rumori e la musica (come in “The Village”), il riflesso di uno specchio (o dell’acqua di “Lady in the water”), la finta amatorialità delle inquadrature.

Il risultato è epifanico: quei dettagli con cui Shyamalan ci aveva fatto ridere, disseminati lungo la trama come i sassolini di Pollicino, ritrovano alla fine un senso compiuto, definito, pieno.

Così come in ogni sua pellicola Shyamalan ci rivela il modo in cui i suoi personaggi riescono a superare le proprie paure, costretti dagli eventi certo, ma capaci proprio per questo di reagire, così anche il pubblico infine risponde ritrovando il senso della storia, riappropriandosi del proprio (auto)controllo. E solo chi non ha capito il suo gioco si sentirà in diritto di uscire dalla sala sicuro, convinto di non essersi fatto fregare, ignorando stupidamente l’evidenza di esserci invece cascato in pieno, ancora, di nuovo.

Ecco perché “The Visit” è un film riuscito, perfetto e circolare. Ecco perché Shyamalan è tornato e vince su di noi, in barba a chi lo pensava finito.

Motori autunnali e cinematografici

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Mi sono accorta che qui non scrivevo da qualche tempo. In questo periodo sono un po’ più impegnata.

Poi è ottobre, il mio mese del cuore. Io sento già l’atmosfera natalizia, non so voi. A dirla tutta la sento da fine agosto, ma credo fosse solo impazienza di vedere la stagione cambiare. In realtà oggi faceva un caldo malsano e difatti non c’ho un umore fantastico. Poi ci sono mattine che mi alzo, vedo la nebbia, sento quella punta di freddo che non è ancora raggelante, le foglie colorate per terra, le castagne matte… e vado in estasi. Arrivo quasi a sentirmi serena, in quei momenti. E attiva, in subbuglio. Per una pigra come me è qualcosa di magico.

Sono tornata al cinema da sola per vedermi Gravity. Che volete farci, sono circondata da scellerati. Beh, è una figata. Era da tanto che non mi riempivo gli occhi di un regia così bella. La storia in sé non racconta nulla di eccezionale, ma credo sia proprio la sua semplicità il punto di forza. Tocca archetipi universali: la vita, la morte, la paura, le relazioni umane, il vuoto, l’infinito. L’idea di fluttuare in mezzo al nulla è angosciante, io non potrei mai fare l’astronauta. Però c’è indubbiamente qualcosa che mi attrae nello spazio e penso sia naturalmente legato alla nostra natura di esseri umani. Forse è proprio questo il bello di Gravity: non George Clooney o l’interpretazione della Bullock (a proposito: voglio mettere la firma per arrivare alla sua età con quel fisico), ma la solitudine estrema e la piccolezza dell’uomo confrontato a tutto il resto. Dove per resto intendo tutto ciò di esterno a noi, non solo galassie e nebulose, ma l’intera percezione che abbiamo del mondo. Ci si osserva due volte: dalla navicella e dalla poltrona del cinema, in un gioco di rimandi e scatole cinesi. Altro che Inception

After Earth, impressioni a caldo

ImmagineQuesta sera ho rotto un tabù: per la prima volta sono andata al cinema da sola.

Ho visto After Earth di M. Night Shyamalan, che è anche uno dei miei registi preferiti. Scrivo qui e di getto qualche considerazione sparsa, magari più avanti metterò a posto le mie riflessioni per farne una critica più accurata (io lo dico, poi magari non succede eh). Ah, ovviamente inserirò spoiler qui e là, quindi chi non vuole rovinarsi il finale e bla bla non legga.

  •  La tematica è in perfetto stile shyamalaiano. Per chi avesse visto The Happening, beh, si può dire che potrebbe esserne il sequel.
  •  Un mio amico, Sandro, ha definito After Earth come il gratest hits di Shyamalan. Non gli dispiacerà se lo cito: “C’è un ragazzino alle prese con: la gente morta, l’asma e gli alieni, l’invalidità, gli scrunt (l’aquila invece lo salva), la cecità, le tossine nell’aria. se non è un greatest hits questo…”. Cazzo sì!
  • Will Smith non è un granché a recitare e nemmeno suo figlio. Ma la storia è bella e tutto sommato non serve una grande espressività nell’interpretarla, soprattutto perché già le inquadrature fanno metà del lavoro. Non dimentichiamoci che in quella figata di Lady in the water ha recitato lo stesso Shyamalan, che non è certo ricordato come attore sopraffino. Rimane un bell’uomo comunque, ma questa è un’altra storia.
  • James Newton Howard è una garanzia.
  •  Questo non è un film sul rapporto padre/figlio, nonostante tutto sia stato pompato per farlo pensare, dagli stessi Smiths ovviamente. D’altronde è evidente come andrà a finire la loro relazione già dai primi fotogrammi. Questo è un film sulla paura, o meglio sul non averla. Sul non farsi sopraffare nonostante tutto lotti per annientarci. Come sempre la maggior parte delle persone si sofferma sulla trama sci-fi e non sulla sottotrama. Che poi tanto sottotrama non è, visto che sta cosa del non aver paura la tirano fuori praticamente in ogni battuta. Ma è come con Signs, dove tutti guardano agli alieni e a come sono fatti male, e non vedono al di là, agli altri segni del film. Quelli che non parlano di alcun extraterrestre, ma che parlano di fede. E il bello è che Mel Gibson lo dice a chiare lettere nel suo celebre monologo con Joaquin Phoenix. Quando la maggioranza della gente (critici compresi) guarda i film di M. Night Shyamalan, vede il dito. E sì che lui la luna la indica chiaramente.

D!spersi

dispersiQuesta è un bella guida che consiglio ai cinefili hanno sempre l’ansia di perdersi qualcosa di fighissimo Bé, è così, ma almeno c’è un libro che vi può aiutare.

Dobbiamo farcene una ragione: non riusciremo mai a leggere tutti i libri pubblicati al mondo, così come non riusciremo mai a vedere tutti i film realizzati. Può sembrare un’ovvietà, tuttavia è un dramma che prima o poi ha tormentato i lettori e i cinefili più appassionati, me compresa. Una consapevolezza che nasce quando scopriamo l’interesse per libri mai sentiti prima, o recuperiamo casualmente pellicole di nicchia mai distribuite nel nostro Paese. L’epifania diventa folgorante: quante cose non conosciamo ancora, quanto ancora da vedere, leggere, ascoltare. Quanto poco il tempo a disposizione, anche solo per fare selezione!

Esistono per fortuna delle scorciatoie. Una di queste la offre il libro D!spersi – guida ai film che non vi fanno vedere, di Alberto Brumana, Carlo Prevosti, Sara Sagrati e Marco Valsecchi. È una raccolta che riunisce quei film che negli ultimi anni non hanno trovato distribuzione in Italia. Sono film letteralmente scomparsi, mai apparsi al cinema, mai pubblicizzati, eppure ben presenti nelle videoteche del resto del mondo. Un tesoro nascosto insomma, ingiustamente tenutoci lontano.

Gli autori lo premettono subito: qui la censura non c’entra. I motivi della non distribuzione sono molteplici, per lo più legati al profitto.

Il libro è una sorta di schedario diviso per generi: “I dispersi di registi celebri” (perché anche le opere dei più famosi possono scomparire nel nulla), “I dispersi sportivi”, “I dispersi con attori famosi”, “I dispersi di animazione”, i mockumentary, gli italiani, e tanti altri.

Per ognuna delle pellicole gli autori raccontano trama, critica, curiosità e motivazioni della sua non-distribuzione, il tutto attraversato da una nota ironica che offre alla lettura piacere e ritmo, per quanto questo libro sia in fondo di mera consultazione.

Al solito, dopo la lettura di D!spersi dovrebbe scattare in voi l’irrefrenabile desiderio di caccia, per accaparrarvi almeno uno dei titoli proposti e poter finalmente tirare una linea alla vostra lista immaginaria. Un film in meno disperso nel mondo, un film in più nella vostra vita.

Alberto Brumana, Carlo Prevosti, Sara Sagrati, Marco Valsecchi, D!spersi – guida ai film che non vi fanno vedere – Falsopiano Edizioni (€ 19,00)

 

Perché mi piacciono gli zombi

Lunedì è terminata la prima parte della terza stagione di The Walking Dead, praticamente l’unico telefilm che sto guardando al momento. Questa terza stagione si sta rivelando decisamente interessante, seppur i dialoghi lasciano sempre a desiderare. D’altra parte, se mi trovassi nel mezzo di un’apocalisse zombie, probabilmente nemmeno io saprei dire qualcosa di originale. Anche se, a pensarci bene, se mi trovassi nel mezzo di un’apocalisse zombie sarei già schiattata da un pezzo, e il mio corpo in decomposizione si ritroverebbe a vagare chissà dove. D’altronde non so correre, per cui uno zombie mi avrebbe raggiunta e fatta fuori con facilità. Nonostante certi difetti comunque, The Walking Dead lo seguo con piacere, principalmente perché adoro gli zombie. Tra tutte le creature mostruose rappresentate nel vasto immaginario horror, sono certamente le mie preferite. Quindi, nonostante due stagioni non particolarmente brillanti, continuo a vedere The Walking Dead con forte passione.

Non mi sono sempre piaciuti gli zombie. A dire il vero non mi sono sempre piaciuti gli horror, la passione è arrivata molto tardi e per osmosi. Se le passioni sono reali, sorrette da approfondimenti, studi, continue riflessioni, riescono a condizionare ed appassionare a loro volta anche nuove persone, come un morbo benigno che porta a scoprire addirittura nuovi lati della tua personalità. Io ho capito che mi piacevano gli zombi alla fine del film Il Giorno degli Zombi. Nella scena finale, i protagonisti fuggono dal bunker in cui sono forzatamente rinchiusi per scappare infine in un’isola deserta. La cosa che mi colpì era la precarietà di quella situazione, l’instabilità di quel rifugio.

Negli horror, normalmente, la tensione si scoglie quando il mostro/l’assassino/la minaccia di turno viene annientata. Parlo in generale ovviamente, so benissimo che una branca dei film horror non termina con la morte dell’assassino, anzi, molto spesso si gioca sull’ambiguità della sua dipartita proprio per lasciare aperti eventuali sequel. Ad ogni modo, di solito è così. Si vuole indurre lo spettatore a tirare un sospiro di sollievo, a farlo uscire dal cinema sereno, perché l’horror, si sa, ha una funzione liberatoria, e che liberazione c’è nel non allentare le proprie paure con la morte del cattivo?

Ed è proprio in questo meccanismo che si insinua la figura dello zombi. Nel finale de Il Giorno degli Zombi (e nella maggior parte dei film sul genere) non c’è reale sollievo. Non si intravede la fine di quell’apocalisse. Così come in The Walking Dead, i protagonisti vanno avanti e sopravvivono adattandosi a quella nuova realtà che non tornerà mai più come prima.

È l’ineluttabilità dello zombie che trovo affascinante. Non c’è rimedio, non c’è posto nel mondo capace di offrire un riparo sicuro. Siamo d’improvviso circondati e, cosa più terrificante, saranno loro d’ora in poi ad abitare il mondo. E i sopravvissuti si ritroveranno in minoranza.

Apprezzo The Walking Dead perché, essendo una serie tv (so che è tratta da un fumetto ma non me ne fotte una mazza), offre uno sguardo ampio al fenomeno zombie, soffermandosi sull’esistenza a lungo termine in sua concomitanza. Raccontando di una Terra alla deriva, dove i punti di riferimento che l’uomo dà quotidianamente per scontati vengono meno e tornano a vigere regole sepolte da secoli di sovrastrutture. Se si contestualizza il telefilm, è evidente il motivo del suo successo, del revival di questa orrorifica figura. La crisi, la disillusione, lo svelarsi graduale di una realtà ormai marcia sono ben simbolizzati dalla metafora del morto vivente. Allo stesso modo in cui Lost raccontò alla perfezione (almeno nelle prime stagioni) il tragico risveglio post 11 settembre. Poi vabbeh, il classico zombie romeriano è una metafora quasi telefonata della società contemporanea e dei suoi problemi.

Senza contare che nella figura dello zombie c’è l’infinito rapporto uomo-morte, di cui sinceramente non voglio spendere troppe parole: un po’ perché è una relazione presente anche in altri millemila personaggi fantastici e un po’ perché… guardate in faccia un morto vivente e capirete da soli il motivo (tra l’altro mi viene in mente ora che la prima puntata della terza stagione di The Walking Dead si apre proprio con un dettaglio su un vitreo occhio zombesco, a proposito di).

Insomma, il motivo della mia passione è dato da una serie di sfaccettature che vanno al di là di un cadavere in putrefazione affamato di cervelli. Partono da quel corpo per richiamare metafore su di noi, la nostra natura, l’intera struttura della nostra società. Da un putrescente particolare si giunge all’universale, arrivando a raccontare tutto il genere umano, le sue paure più ancestrali, il suo inesorabile disfacimento, la sua “tragedia in campo lungo”.

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