Natale 2017

Del Natale mi piace soprattutto una cosa: fare i regali.

Ci penso mesi prima, attentamente, a quali regali fare. Non so dire perché mi piaccia così tanto, certa gente nemmeno se li scambia, molti la vedono una fastidiosa incombenza, altri un inutile spreco di denaro. Quelli che si danno al compleanno non sono la stessa cosa: spesso sono regali fatti in comune con altre persone, in cui difficilmente c’è libertà di scelta. A quanti brutti regali ho partecipato! Mi sarei ricacciata volentieri il portafoglio in borsa, piuttosto che dare certe cazzate.

A Natale invece ci sono solo io. Io e la persona a cui ho deciso di regalare una fetta del mio tempo e del mio denaro. Ci vedo uno dei pochi momenti in cui posso dire a qualcuno a cui voglio bene: ecco, questo è  per te, solo per te. Ho cercato questa cosa tra tante altre cose, non è niente di esagerato, ma ho voglia di darti un pensiero che ti rimanga, che mi faccia ricordare, che ti dica in qualche modo che per me conti.

Tutto qui.

Ecco perché mi piace il Natale. Poi certo, ci sono le luci. A chi non piacciono le luci? Quando sento le persone che polemizzano sull’atmosfera natalizia mi viene un po’ da ridere. Anche a me fa cagare la forzata bontà, il pietismo, il messaggino scritto perché si deve, le cene obbligate con colleghi con cui il resto dell’anno ti saluti a malapena. Sono piccole ipocrisie sociali che raggelano chiunque. Per cui no, non mi sento una di quelle allucinate che vedono nel 25 dicembre il riscatto di un anno di malinconie o cattiverie. Il Natale, anzi, spesso tira fuori il peggio delle persone: è il periodo più ansiogeno e depressivo dell’anno, se mal gestito. E capisco benissimo quanto sia difficile viverlo con la giusta dose di serenità: si vive dicembre con la speranza che finisca presto passando inosservati.

A me salva proprio l’obiettivo dei regali. L’immagine di chi li scarterà, del suo sguardo, del mio. L’altro giorno ho pensato che ci sono state diverse persone nella mia vita a cui ho smesso di farli. Un gruppetto sparuto a cui una volta dedicavo quella piccola parte di me, a cui incartavo malamente il pacchetto (dio solo sa quanto non sono capace), a cui preparavo il fiocco, i colori da abbinare, il biglietto giusto.

Chissà se qualcun altro ci pensa mai, ai regali che si è smesso di fare. Ai Natali non festeggiati, alle cose che si è smesso di dire. Ci sono giorni nella vita che a un certo punto, semplicemente, si fermano come le pedine del domino, quando fai male i calcoli e invece di cadere perfettamente in sequenza, si fermano a metà disegno.

 

Io odio Peter Pan

Peter_PanIo odio Peter Pan.

L’ho sempre odiato, in ogni sua forma. Uno sfigato in calzamaglia che non si assumerà mai le proprie responsabilità, che tortura un povero pirata monco e si permette pure di fare lo sbruffone con Wendy. Sopracciglia apprezzabili, ma per il resto fuffa.

Ma in fondo è tutta la storia di Peter Pan che ho sempre odiato, non solo lui in quanto tale. Ogni personaggio, dai bambini fastidiosamente innocenti a Campanellino, usata solo per la magggica polverina che produce.

Peter Pan è un mito di cartapesta, il simbolo dei buoni a nulla, dei furbetti, degli insicuri e di quelle persone talmente coerenti con loro stesse da risultare ridicole di fronte al mondo che cambia. La leggenda di Peter Pan è la scorciatoia dei poveri di spirito, cristallizzati per sempre nelle proprie decisioni, ammuffiti dietro una patina di finta giovinezza. Perché può davvero essere definito giovane Peter Pan?

È un freak, un Dorian Gray senza finale tragico, un vecchio pervertito nascosto dietro una maschera dalla pelle liscia, supponente abbastanza da credere di poter guidare in eterno un gruppo di bambini sperduti altrettanto disadattati come lui. Un baluardo della pedofilia, personificato in quest’elfo vecchio dentro e fuori immutabilmente giovane, piccolo, fresco. Giocatore perpetuo. Una storia dove l’unica protagonista femminile, Wendy, è costretta, guarda caso, a fare da mamma a questi poveracci, fino a che il buon senso la ripiglia.

Non è un caso che Peter Pan sia un uomo.

Una donna non avrebbe mai potuto incarnare il mito dell’eterna bambina. È fisiologicamente impossibile, per una donna, non invecchiare. Una donna invecchia sempre, costantemente. Ci sono giorni in cui invecchia anche di più.

Una donna invecchia già da piccola, quando a scuola i bambini la rincorrono. Quando cresce e inizia a capire il suo corpo. Una donna invecchia quando si innamora per la prima volta. Quando scrive sul diario il nome del ragazzo che non la corrisponde, lasciando dietro di sé la sua dignità insieme all’inchiostro. Una donna invecchia quando aspetta che il telefono squilli, quando il telefono squilla e quando risponde. Una donna invecchia quando si trucca, quando per strada le urlano dietro e sull’autobus la mattina le sfiorano il sedere abbastanza da farla scostare. Invecchia per le cose importanti e per quelle futili. E se un giorno non volesse invecchiare, il mondo la guarderà imbarazzato. Anch’io sto invecchiando a scrivere tutto questo.

A Peter Pan e ad ogni altro suo alter ego reale, esclusivamente maschile, è concesso di rimanere bambino solo perchè le persone guardano con benevolenza la sua essenza fanciullo, registrandola come una caratteristica spiazzante, dolce, lodevole. Guarda, uno che è rimasto puro e innocente!

 

Alla fine della storia però, Wendy decide di crescere. È un’anziana signora piena di rughe. Pensa a Peter Pan rimasto bamboccione nell’Isola che non c’è e ciò nonostante non rimpiange nulla della sua scelta. Un motivo ci sarà, penso.

 

 

Buon duemilae…

Non so voi, ma da quando ho finito le superiori, da quando cioè ho concluso la fase “adolescenza”, gli anni si sono succeduti senza veri e propri punti di riferimento. Sono diventati improvvisamente indistinguibili, spalmati sulla mia esistenza tanto che mi ci vuole qualche minuto per capire bene cos’ho combinato nel 2012, nel 2009, nel 2013.

Analizzo questa consapevolezza con un leggero stupore: è questa la vita? Un susseguirsi di giorni, mesi, anni di cui a un certo punto non si riescono a distinguere i contorni? Non lo so se questo spaesamento nasce da una certa propensione a voler catalogare, etichettare, riporre sugli scaffali della mente determinate annate: questa sì, questa no, questa bene, questa male.

Mi guardo indietro e vedo più che altro un insieme di momenti incastrati qua e là tra gli spessi strati di ordinaria quotidianità. Capodanni privati ed intime epifanie di giorni qualunque solo all’apparenza, ma ben fissati nella mia mente a seconda di una sensazione, una situazione, un punto e a capo.

Allora hanno ragione gli amanti delle citazioni, che sui social network dicono che la vita è fatta di attimi, non certo di annate, non siamo vino nelle botti lasciato poi a decantare a seconda del periodo. Siamo semplicemente qualcosa che scorre attraverso quel concetto chiamato tempo, le stagioni, le piccole sicurezze scandite da una lancetta.

Scusate il post al gusto Osho, oggi il 2016 per me comincia così, con grandi “ommmmm” e panta rei. E, così come nel 2015, continuo a sperare nel karma e nei suoi potenti effetti.

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Supersonic

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Vorrei dire che sono in una fase della mia vita in cui faccio molta introspezione, come fanno molti, poi però non saprei come giustificare gli ultimi trentuno anni di seghe mentali. Magari la verità è che non vivo alcuna fase, perché faccio introspezione da quando sono nata, quindi direi che il mio è più uno stile di vita, con picchi più o meno intensi.

 

E niente, pensavo a quei momenti in cui, mentre ci si guarda dentro, ci si perde un pochino, e si prova a cercarsi in giro. A volte ci si prova a trovare negli altri, a riconoscersi, ma inevitabilmente ci si perde anche lì, perché va a capire se gli altri sono pronti a riflettere la nostra immagine così come pensiamo noi, anche se nella nostra testa non ha una sagoma prestabilita. La frustrazione è dietro l’angolo, col conseguente frantumarsi in ulteriori, piccoli pezzettini.

 

Capita dunque che a un certo punto lo sguardo debba obbligatoriamente tornare al punto di partenza, alla base, cioè a noi. Lo scopo è che quell’immagine che ci vediamo riflessa dentro debba trovare una contorno, seppur abbozzato, possibilmente con una consistenza a noi piacevole, perché altrimenti non c’è alcuno scopo nel ritrovarsi e tanto vale perdersi ancora di più. È una scelta anche quella. Una scelta che però io non ho intenzione di seguire.
Ritrovarmi e ricompormi è un po’ ciò ha caratterizzato questi mesi, con costanza più o meno attiva. È un processo interessante, spesso necessariamente doloroso, ma anche curioso e, a tratti, divertente. Sta venendo fuori una cosa carina.

Quelle intorno a me. La ragazza boho.

Tra le numerose categorie umane che popolano il mondo, quella delle adolescenti e delle poco-più-che-ventenni, attrae da sempre la mia curiosità. Non lo so se è una cosa che accade perché ormai l’adolescenza l’ho superata da un pezzo, ed è diventato quindi fisiologico osservare gli atteggiamenti delle ragazze più giovani di me. Magari è così, ma è anche vero che già quando ero io una poco-più-che-ventenne osservavo con interesse i modi di fare di certe mie coetanee. Sarà quindi una caratteristica della mia personalità, quella di guardare come affrontano la vita il resto delle donne.

Si apre dunque con questo post una serie di analisi su certe tipologie umane, soprattuttto femmine, su cui mi sono imbattuta o mi imbatto di tanto in tanto. Non sono analisi antropologiche, non sono riflessioni profonde sulla nostra società. Sono opinioni che ho maturato osservando certi fenomeni naturali.

Non potevo non cominciare parlando delle ragazze boho, le mie preferite. Sono giovinastre che si atteggiano a donna vissuta, fatta e finita, con abiti e atteggiamenti che sembrano raccontare una vita già piena di esperienze, di riflessioni al chiaro di luna, di fumo di sigarette, immancabile alcool e nottate passate a osservare l’alba tra l’erba della brughiera inglese.

Le riconosci bene: sono quelle che vanno in giro senza reggiseno, magari con maglioni informi e scarpe grosse. Quelle coi capelli scarmigliati, con poco trucco o con solo le labbra ben contornate da rossetti rigorosamente scuri. Sono ragazze emaciate, le puoi trovare immerse nelle letture di grandi filosofi o ferme a contemplare un quadro di Rothko. Citano i grandi pensatori, ascoltano Battiato, o tirano fuori musicisti sconosciuti famosi solo in qualche circolo culturale di Nantes. Hanno una predilezione per la Novelle Vague, a volte guardano all’Oriente. Leggono gli autori russi.

La poesia per queste ragazze è il pane quotidiano. Ma anche la fotografia, specialmente quella dai colori poco saturi, se non addirittura quella in bianco e nero. Perché le ragazze boho amano fermare l’attimo, ma non scattano semplicemente foto. Ogni loro produzione creativa è l’atto finale di un pensiero che ha radici nella loro intimità più nascosta e qualunque fruitore si trovi nei paraggi deve ritenersi fortunato nel potervi accedere.

Sì perché, questo non l’ho detto, ma la ragazza boho deve avere necessariamente un fruitore. Possibilmente uomo. Perché altrimenti l’intero universo di citazioni, rimandi e tramonti perde improvvisamente di senso, se non è percepito da qualcuno che non possiede ormoni femminili, così volubili e mestruati. Se ha una decina d’anni in più, poi la percezione pare si acuisca meglio.
La sfera sessuale nelle ragazze boho è potentissima e attrae molto, ma per lei è, all’apparenza, solo un aspetto marginale della sua essenza. Lei non vive per attrarre e, se succede, è del tutto inconscio.

Da fuori, in realtà, il meccanismo è molto chiaro: ciò che sembra casuale, istintivo, guidato da pulsioni involontarie e ancestrali, appartiene a un disegno preciso, banalmente chiamato seduzione. Sì badi bene però: la ragazza boho non lo ammetterà mai. Non vuole attrarre in maniera plateale. Vuole farlo sottilmente, attraverso un sottobosco di cliché vecchi già ai tempi di Baudleaire e che, data la sua età, nemmeno lei sa essere abusati. Lei pensa di poterli gestire con originalità e innovazione. E il fruitore bisognoso di estraniarsi da una società ipersessuata, subisce di buon grado.

Il suo animale preferito: la falena

Il colore: il rosso bordeaux

Segno distintivo: il capezzolo che sbuca dalla maglia tricot

Come cadere ai suoi piedi: mandatele una foto delle vostre mani che un vostro amico vi avrà scattato mentre vi state abbottonando la camicia a righine sottili. Più si vedono le ossa delle nocche, meglio è. Fatevi immortalare mentre suonate uno strumento (no il pianoforte che è mainstream, vietata la chitarra, quella semmai la suona lei, che certamente nella sua lunga vita annovera il saper suonare uno strumento a corda). Citatele una frase dell’ultimo libro che avete letto. Se non ve ne ricordate manco una, basta che buttiate dentro le parole: malinconia, nebbia, impulso, sublime, una qualunque parola in francese, parolacce comprese (le adorano in un’altra lingua – non spagnolo che fa burino). Non citatene più di dodici.

Cosa fare quando avete conquistato una ragazza boho? Ovviamente andateci a letto prima che cresca come tutte, e fumate insieme tra le lenzuola ruvide (ma non tra la brughiera inglese, che lì ci son sterpaglie e poi un incendio non lo fermate più). Non permettetele mai di fotografarvi, che poi vi risucchia l’anima per poi spacciarla per sua sui social network.

Se fossi una canzone

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L’altro giorno pensavo al gioco del “Se fossi”, ce l’avrete sicuramente presente.

E niente, ho pensato che se fossi una canzone probabilmente sarei “Don’t let me be misunderstood”, perché è una di quelle canzoni che ogni volta che mi capita all’orecchio, devo fermarmi e ascoltarla. La trovo ipnotica.

Mi piace qualunque versione a parte quella di Joe Cocker, ma sostanzialmente perché non mi fa impazzire Joe Cocker. Ciò non vuol dire che questa sia la mia canzone preferita di tutti i tempi, ma semplicemente che mi ritrovo nella melodia, nel testo, nelle vocali allungate del ritornello.

C’è qualcosa di malinconico e tuttavia giocoso nel ritmo di quel pianoforte che mi spiega e mi racconta e mi descrive.

Le epifanie sono anche questo.

Selfie and Love

Sì, io mi faccio i selfie.
Lo ammetto, senza troppa vergogna, e spiego anche perché.

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Perché mi piace vedere come cambia il mio volto con la luce. Perché mi piace vedere come mi sta un trucco particolarmente accurato che mi sono appena fatta. Perché mi piace vedermi da fuori, al di là di come mi vedo riflessa, vedere cosa vedono gli altri quando parlo, faccio una smorfia, sorrido. Perché mi piace vedere come invecchio, se spuntano rughe inaspettate da qualche parte, se ho un capello bianco in più sfuggito alla mia quotidiana vivisezione facciale.

Mi faccio i selfie, ma la maggior parte di questi rimangono all’interno del mio cellulare. Spesso li cancello subito, altre volte, quelli che ritengo più di mio gusto, li tengo per riguardarmeli. Mi ricordano un periodo della mia vita, un momento, un pensiero. E magari rivedere la mia faccia, come stavo quando quel giorno ho deciso di fotografarmi, ricorda a me stessa come stavo, per rivivere una sensazione o scacciarla per sempre. Ritornare a quel momento, a cosa dicevano davvero quegli occhi, cosa davvero stavo guardando quando mi sono fatta quella foto. È un lavoro che parte e finisce con me stessa, che ha molto a che fare con la mia intimità. Per me farsi un selfie vuol dire questo.

Poi, a volte, mi piace condividere una foto in cui sono venuta particolarmente bene, per divertirmi. Devo davvero spiegarvi io perché si pubblicano online i propri autoscatti? Suvvia, c’è un mondo intero di articoli in cui fior fior di psicologi analizzano con grande profondità la deriva narcisistica della società, l’importanza che ha assunto il qui e l’ora, il come, il dove, se tu ci sei dentro e lo dimostri con un clic.

Tuttavia la cosa che mi fa ultimamente sorridere quando mi capita di pubblicare in qualche social una mia foto, sono i commenti di quelli che prendono in giro questa mia particolare vena vanitosa. Criticare chi si fa i selfie pensavo fosse una moda superata da qualche anno, tuttavia c’è chi ancora, nel 2015, si permette di giudicare cosa fai col tuo cellulare. Finché non si supera il buon senso o il limite del buon gusto, e non si tempesta il cyberspazio con foto della propria facciona (e anche in quel caso, sticazzi), credo sia davvero ridicolo prendere per il culo un atteggiamento che – sono convinta – molti hanno fatto almeno una volta nel buio nella propria cameretta. Non tirate fuori le solite esagerazioni, ripeto, anch’io ho Instagram e vedo bene cosa porta l’ossessione dell’autoscatto. Non mi ritengo in nessun modo paragonabile a questi casi umani.

Trovo davvero più imbarazzante chi sta dall’altra parte, e commenta con inutili banalità chi decide di gestire il proprio aspetto come più gli aggrada. Sembra poi che a certi livelli la gestione della propria immagine non sia particolarmente apprezzata. È come se a certe persone non sia concesso giocare con la propria vanità, come se fosse indice di chissà quale superficialità, ostentazione, stupida boria.

Penso che in molti dovrebbero rivedere il proprio rapporto con l’estetica. La propria e quella altrui. Se non altro per vivere con meno fatica e stizza il mondo che sta loro attorno.

Cose che ti attraversano

L’altra sera ero impegnata per lavoro fuori città. Era un lavoro di poche ore, che tuttavia mi ha occupato praticamente tutta la giornata. Lo sapevo, mi ero preparata. Ciò nonostante la cosa che più mi preoccupava all’inizio riguardava gli spostamenti.

Ora, forse voi non lo sapete ma io sono una persona abbastanza fortunata: quando devo andare da qualche parte fuori città è molto probabile che non sia io a guidare. Semplicemente, lo fanno altri. Questa è una cosa piacevole, perché a me non piace molto guidare. L’altro lato della medaglia è che conosco molto poco le strade, tendo a perdermi facilmente, non presto attenzione a cartelli e segnali. Potete dunque immaginare quanto sia stata una sfida per la sottoscritta prendere l’auto per andare a fare questo lavoro senza nessuno a cui fare affidamento se non il mio navigatore che peraltro non è molto aggiornato. Il posto in cui dovevo andare non era neppure segnato sulla mappa, per dire. Alla fine comunque l’ho trovato e anche con grande facilità. Come sempre, le ansie che caratterizzano la mia vita non sono altro che giganti coi piedi di argilla, pronti a sciogliersi al primo passo. Basterebbe ricordarselo.

Perché racconto di questa cosa?

Perché quando la serata era ormai conclusa e stavo ormai guidando sulla via del ritorno, mentre stavo scivolando nella notte con le poche luci dell’autostrada e dei fari delle auto, ho provato una sensazione strana. La radio era accesa, ma a basso volume. Il finestrino un po’ abbassato, uno spiraglio d’aria.

Ciò che ho provato è stata una punta di felicità. È stato un attimo, davvero, poi è passato così com’è arrivato. Ho voluto allungare l’uscita dell’autostrada e ho proseguito per un po’ per continuare a riacciuffare quella cosa che mi aveva attraversato.

Ho percorso una galleria.
Solo io e la mia piccola macchina. La radio ha smesso temporaneamente di trasmettere, solo il rumore del motore, il mio respiro e la notte. Non so se scrivendolo qui si possa in qualche modo evocare, quel momento. Magari solo un’infinitesima parte. Ma mentre percorrevo la galleria mi sentivo come in quei film densi di metafore, quelli che piacciono a me per intenderci. Io, che scelgo di entrare nel tunnel, e a un certo punto non vedo più l’inizio né la fine, e sono dentro ma continuo ad andare avanti, perché so che a un certo punto finirà e rivedrò il mondo fuori, nonostante la sua notte.

È stato bello. Volevo ricordarlo.

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I vizi che non ho

Non ho grossi vizi.

Non fumo perché non mi piace il sapore della cicca in bocca. La mia prima sigaretta l’ho fumata a sedici anni, una Marlboro rossa. Non vi dico il mal di testa. Però ho voluto continuare, così ho provato una boccata di questo, una boccata di quello, ma il gusto schifoso ha prevalso sulla curiosità. I miei amici, quasi tutti fumatori, mi rassicuravano “Sì, non sarà buona subito, ma vedrai che ti abitui e poi non ci fai caso.” Non ne dubito, ma ho pensato che la vita a volte richiede già troppi sacrifici con l’idea del “poi andrà meglio”. A che pro incaponirsi, contando pure che sono ipocondriaca?

alcoolCon l’alcool è andata più o meno allo stesso modo, solo ci ho messo più tempo a lasciar perdere. La mia prima sbronza l’ho avuta con limoncello e sambuca: all’inizio si sperimenta un po’ di tutto. Negli anni ho continuato a bere durante qualche serata, soprattutto superalcolici, perché quando hai diciotto anni ti piacciono questi bibitoni colorati e dolci, capaci di farti sballare in poco tempo. In realtà non è che mi piacesse molto. Quasi sempre lo facevo per evitare battute e rotture di palle: “sono in compagnia, bevo. Lo fanno tutti, bevo.”

Non so se è una cosa tipica di noi veneti, ma se non bevi sei proprio malvisto. Ti guardano storto anche i baristi: si chiedono cosa non va in te, provano a trovare una rassicurazione domandandoti se sei astemio e se rispondi di no non riescono a capacitarsi del fatto che hai ordinato una Coca Cola di venerdì sera. Diventi la pecora nera in mezzo a una bolgia di persone che deve avere il mojito in mano o lo spritz, per chiacchierare, ridere, divertirsi. È un po’ questo uno dei grandi problemi della nostra società, no? La quantità di alcool come metro di giudizio del divertimento. Ho amiche che non concepiscono una serata, una festa, senza buttar giù qualche alcolico. Non necessariamente per ubriacarsi a tutti i costi, magari solo per fare qualcosa, tenersi le mani occupate.

Questa cosa delle mani occupate è forse il problema centrale. Se hai un calice o una sigaretta in mano, stai facendo qualcosa. Non sei semplicemente impalato fuori da un bar, un pub, una discoteca. Tu fumi, tu bevi. Se vuoi chiacchieri, se non vuoi, sei comunque impegnato. È forse la cosa che ho sempre invidiato ai fumatori, questa del sentirsi occupato anche nel mezzo di una serata vuota. Per fortuna poi hanno inventato gli smartphone, e allora uno può smanettare da solo e sentirsi attivo cazzeggiando. Certo, si è persa una buona parte di socialità, ma almeno la gggente non sarà mai additata come sfigata e sola.

Sia chiaro, non ho smesso di bere, ma a differenza di un tempo una birra o un bicchiere di vino me lo concedo se ne ho davvero voglia e non per imposizione sociale. La cosa che più mi fa sorridere è che questo mio centellinare una sana bevuta, ha comunque indotto negli altri il pensiero che io sia astemia, seguace di un salutismo estremo e quindi anormale, tanto da suscitare esclamazioni di stupore quelle volte che mi si vede bere una birretta. Per quanto il mio atteggiamento possa sembrare guidato da un moralismo spicciolo, in realtà rimane il frutto di una attenta riflessione sulla convivialità moderna. La sigaretta, lo spritz, sono solo sovrastrutture. Schermi che le persone usano per darsi forza e coraggio. Libertà fasulle. L’happy hour, l’aperitivo lungo, le feste, avvallano ed esaltano questa debolezza mascherata da figata. E, alla luce della mia esperienza, trovo angosciante che ancora non esista una reale alternativa alla dittatura del bere sempre, ovunque, comunque. Che addirittura i momenti culturali come il VinItaly o altre manifestazioni enogastronomiche alla fine si risolvano tutte in “bever, bever, bever”, per poi aggiustare il tiro con campagne tipo “bevi consapevole”. Ma dove? Ma cosa?

Mi rifiuto di farmi trascinare in tutto questo.

Perché vivo male ad agosto

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Agosto non mi è mai piaciuto.

Sono sempre stata una persona poco socievole, estroversa solo dopo una lunga incubazione, solitaria di natura e spesso spensierata per forza. Da piccola l’estate mi gettava nello sconforto perché scardinava la mia routine scolastica, le mie piccole certezze quotidiane fatte di lezioni e compiti, lasciandomi una cosa che adesso tutti bramano e desiderano, ma all’epoca mi spaventava: il tempo libero. Giornate da gestire come vuoi, ozio senza vergogna, libertà. Non che non apprezzassi queste cose, solo avevo poche persone con cui spassarmela davvero, con cui godermi questo tempo, unito a un carattere che mal si presta all’improvvisazione.

La mia migliore amica mi abbandonava per almeno due terzi dell’estate, dividendosi tra le sue case in villeggiatura con amici di famiglie bene lontanissime dalla mia realtà, mentre io potevo contare su qualche settimana di mare assieme alla mia famiglia. Il mio programma estivo terminava a luglio.

Agosto quindi era il mese più tremendo. Rimanevo in città, ma la maggioranza dei miei amici no. Ero sola, più del solito.

Con gli anni la mia vita è cambiata, ma non il mio approccio a questo mese. Lo trovo di una malinconia insopportabile. Il caldo diventa bollente e per me ingestibile. È un limbo desolato in attesa di settembre, il mese dei rientri, dei buoni propositi, del fermento, di tutto ciò che è attività umana, ricca, prolifica, frenetica. Per quanto io sia una persona tendenzialmente pigra, odio l’inattività. Vivendo nell’(ex?) ricco e produttivo Nordest, potete solo immaginare quanto senso di colpa aleggi sopra le persone che non fanno o che si ritrovano a non poter fare.

So benissimo che agosto per tanta gente è il mese della gioia, delle sudatissime ferie, del premio alle proprie fatiche. È sogno, dolce far niente, monotonia adorata di giornate da conquistare facendo cose che negli altri mesi ti sono negate per mille motivi. Sono consapevole dell’importanza che ha questo mese per il resto del mondo.

Eppure io non vedo l’ora passi veloce, che l’aria fresca dell’autunno torni sul mio viso, che il sole si faccia meno assassino, che il tempo diventi gestibile, che questa inquietudine estiva mi abbandoni.