Cose che ti attraversano

L’altra sera ero impegnata per lavoro fuori città. Era un lavoro di poche ore, che tuttavia mi ha occupato praticamente tutta la giornata. Lo sapevo, mi ero preparata. Ciò nonostante la cosa che più mi preoccupava all’inizio riguardava gli spostamenti.

Ora, forse voi non lo sapete ma io sono una persona abbastanza fortunata: quando devo andare da qualche parte fuori città è molto probabile che non sia io a guidare. Semplicemente, lo fanno altri. Questa è una cosa piacevole, perché a me non piace molto guidare. L’altro lato della medaglia è che conosco molto poco le strade, tendo a perdermi facilmente, non presto attenzione a cartelli e segnali. Potete dunque immaginare quanto sia stata una sfida per la sottoscritta prendere l’auto per andare a fare questo lavoro senza nessuno a cui fare affidamento se non il mio navigatore che peraltro non è molto aggiornato. Il posto in cui dovevo andare non era neppure segnato sulla mappa, per dire. Alla fine comunque l’ho trovato e anche con grande facilità. Come sempre, le ansie che caratterizzano la mia vita non sono altro che giganti coi piedi di argilla, pronti a sciogliersi al primo passo. Basterebbe ricordarselo.

Perché racconto di questa cosa?

Perché quando la serata era ormai conclusa e stavo ormai guidando sulla via del ritorno, mentre stavo scivolando nella notte con le poche luci dell’autostrada e dei fari delle auto, ho provato una sensazione strana. La radio era accesa, ma a basso volume. Il finestrino un po’ abbassato, uno spiraglio d’aria.

Ciò che ho provato è stata una punta di felicità. È stato un attimo, davvero, poi è passato così com’è arrivato. Ho voluto allungare l’uscita dell’autostrada e ho proseguito per un po’ per continuare a riacciuffare quella cosa che mi aveva attraversato.

Ho percorso una galleria.
Solo io e la mia piccola macchina. La radio ha smesso temporaneamente di trasmettere, solo il rumore del motore, il mio respiro e la notte. Non so se scrivendolo qui si possa in qualche modo evocare, quel momento. Magari solo un’infinitesima parte. Ma mentre percorrevo la galleria mi sentivo come in quei film densi di metafore, quelli che piacciono a me per intenderci. Io, che scelgo di entrare nel tunnel, e a un certo punto non vedo più l’inizio né la fine, e sono dentro ma continuo ad andare avanti, perché so che a un certo punto finirà e rivedrò il mondo fuori, nonostante la sua notte.

È stato bello. Volevo ricordarlo.

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Un anno dopo

Mi sono appena accorta del fatto che nel 2014 non ho mai scritto qui.

Neanche un commento, un piccolo messaggio, niente di niente. Ecco, ho deciso di riscrivere oggi solo per rassicurare i miei virtual fan del fatto che non sono morta e che questo blog non è stato abbandonato. Cos’ho fatto tutto questo tempo? Come dicevano in un film “Sono andata a letto presto”.

Tuttavia, siccome questo credo sia rimasto l’unico mio spazio davvero libero in giro per il web, eccomi qui di nuovo. Eh no, i social network non sono libertà. Sono l’esatto opposto, semmai.

Invece i blog… i cari vecchi blog hanno ancora molto da offrire, a quelli che non hanno voglia di sbattersi troppo per andare alla ricerca di visualizzazioni, di campagne marketing per diventare famosi. Hanno molto da offrire a chi ha voglia di scrivere senza un perché, o magari con un perché tutto loro, che tu lettore puoi afferrare o meno. Io ci vedo ancora della libertà da agguantare. Chiamatemi sognatrice, faccio spallucce.

Certo, mi riferisco ovviamente ai blog personali.

Nel 2014 ci ho pensato, ogni tanto, a questo blog. Poi la vita mi ha risucchiata in una serie di vicende che mi hanno lasciata parecchio intontita e la voglia di scrivere – e di conseguenza di ispezionarmi – ho preferito chiuderla in un cassettino in attesa di tempi migliori.

Non sono arrivati quei tempi, è arrivata prima la voglia di scrivere, anche senza un perché.

Così eccomi qui, di nuovo.

Una frase ricorrente sulle donne, le tette, le camicette

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Voi non ci crederete, ma c’è una frase mi torna sotto gli occhi di tanto in tanto e in libri totalmente diversi tra loro. Recentemente l’ho riletta in un racconto. La frase in questione è “(…) la camicetta leggera lasciava indovinare i seni piccoli e sodi”. Fateci caso, prima o poi sarà capitata anche sotto i vostri occhi questa descrizione, se non esattamente con queste parole, di certo col medesimo contenuto.

Ora, immagino che con questo post mi stia aggiudicando le visite dei prossimi mesi di quelli a cui basta pensare a due seni piccoli e sodi dentro una camicia per eccitarsi tantissimo. In realtà siete in buona compagnia, se questa descrizione è così gettonata.

Inutile dire che a me infastidisce, per diverse ragioni.

Innanzitutto è discriminante per quelle povere donne col seno grosso. Provate a pensarci: “la camicetta lasciava indovinare i grossi seni”, ha tutto un altro significato nell’immaginario collettivo. Innanzitutto perché se una ha i seni grossi non lo indovini: lo vedi, quindi il mistero svanisce (e con esso la poesia, la sensualità del vedo non vedo, la magia). E poi descrive una donna provocante, volgare (perché non si abbottona), rozza. L’autore passa da maiale che fissa le tettone.

È discriminante poi per quelle donne col seno non più turgido. “la camicetta lasciava indovinare i seni piccoli e un po’ a ciabatta” parla di una donna sciatta e trasandata, magari di quelle che ignorano la forza di gravità e non portano il reggiseno. La donna sembra quindi una stracciona comunista, l’uomo un maiale che arriva a fissare pure la consistenza delle tette altrui. -Ma pensa alle tue, vecchio bavoso!-

È infine fastidiosa tutta la simbologia che ruota attorno alla camicia da donna, che nella mente dell’uomo è ovviamente sbottonata fino a lasciar intravedere il seno. Un seno che non può essere altro che piccolo e simpatico, la cui proprietaria è una tipa ancora giovane e piacente, capace di giocare con la sessualità e i bottoni di un capo d’abbigliamento. Inoltre la camicia, più di una maglietta, racconta di un preciso status intellettuale. Non abbiamo di fronte una donnetta in t-shirt, che se ne va in giro coi seni piccoli e sodi pronta per vincere Miss Maglietta Bagnata. Qui c’è una Donna, che sceglie con cura una camicetta, la abbottona fino a un certo punto, e poi passeggia e chiacchiera con questi seni piccoli e ancora sull’attenti.

Senza contare che in questo modo l’uomo non è affatto guardone: diventa semplice e involontario ammiratore di una bellezza classica e senza tempo. Cosa ci può fare, se la donna gli è capitata talmente vicino da far intravedere un seno piccolo e sodo? Mica è colpa sua, se gli viene da descriverlo. Anzi, diventa una celebrazione della femminilità pura ma audace, spensierata ma di classe. Un elogio, addirittura.

Mi rendo conto che anche noi fimmene, leggendo spesso frasi così in giro, siamo ormai assuefatte a determinati canoni estetici e conseguenti opinioni su chi li possiede. Il seno piccolo e sodo è bello, il seno grande e un po’ cadente no. La camicetta è eleganza, la maglietta è miseria.

A me piacerebbe trovare uno scrittore capace di descrivere la bellezza di una donna senza necessariamente descriverne i suoi seni piccoli e sodi indovinati sotto una camicia. Capace di descriverla senza l’ausilio di logori luoghi comuni. Uno capace di rendermela bella senza parlare di forme giunoniche, burrose, felliniane, ma semplicemente di forme e basta, anche se grosse, anche se molli, anche se dentro una felpa in pile.

Motori autunnali e cinematografici

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Mi sono accorta che qui non scrivevo da qualche tempo. In questo periodo sono un po’ più impegnata.

Poi è ottobre, il mio mese del cuore. Io sento già l’atmosfera natalizia, non so voi. A dirla tutta la sento da fine agosto, ma credo fosse solo impazienza di vedere la stagione cambiare. In realtà oggi faceva un caldo malsano e difatti non c’ho un umore fantastico. Poi ci sono mattine che mi alzo, vedo la nebbia, sento quella punta di freddo che non è ancora raggelante, le foglie colorate per terra, le castagne matte… e vado in estasi. Arrivo quasi a sentirmi serena, in quei momenti. E attiva, in subbuglio. Per una pigra come me è qualcosa di magico.

Sono tornata al cinema da sola per vedermi Gravity. Che volete farci, sono circondata da scellerati. Beh, è una figata. Era da tanto che non mi riempivo gli occhi di un regia così bella. La storia in sé non racconta nulla di eccezionale, ma credo sia proprio la sua semplicità il punto di forza. Tocca archetipi universali: la vita, la morte, la paura, le relazioni umane, il vuoto, l’infinito. L’idea di fluttuare in mezzo al nulla è angosciante, io non potrei mai fare l’astronauta. Però c’è indubbiamente qualcosa che mi attrae nello spazio e penso sia naturalmente legato alla nostra natura di esseri umani. Forse è proprio questo il bello di Gravity: non George Clooney o l’interpretazione della Bullock (a proposito: voglio mettere la firma per arrivare alla sua età con quel fisico), ma la solitudine estrema e la piccolezza dell’uomo confrontato a tutto il resto. Dove per resto intendo tutto ciò di esterno a noi, non solo galassie e nebulose, ma l’intera percezione che abbiamo del mondo. Ci si osserva due volte: dalla navicella e dalla poltrona del cinema, in un gioco di rimandi e scatole cinesi. Altro che Inception

I vizi che non ho

Non ho grossi vizi.

Non fumo perché non mi piace il sapore della cicca in bocca. La mia prima sigaretta l’ho fumata a sedici anni, una Marlboro rossa. Non vi dico il mal di testa. Però ho voluto continuare, così ho provato una boccata di questo, una boccata di quello, ma il gusto schifoso ha prevalso sulla curiosità. I miei amici, quasi tutti fumatori, mi rassicuravano “Sì, non sarà buona subito, ma vedrai che ti abitui e poi non ci fai caso.” Non ne dubito, ma ho pensato che la vita a volte richiede già troppi sacrifici con l’idea del “poi andrà meglio”. A che pro incaponirsi, contando pure che sono ipocondriaca?

alcoolCon l’alcool è andata più o meno allo stesso modo, solo ci ho messo più tempo a lasciar perdere. La mia prima sbronza l’ho avuta con limoncello e sambuca: all’inizio si sperimenta un po’ di tutto. Negli anni ho continuato a bere durante qualche serata, soprattutto superalcolici, perché quando hai diciotto anni ti piacciono questi bibitoni colorati e dolci, capaci di farti sballare in poco tempo. In realtà non è che mi piacesse molto. Quasi sempre lo facevo per evitare battute e rotture di palle: “sono in compagnia, bevo. Lo fanno tutti, bevo.”

Non so se è una cosa tipica di noi veneti, ma se non bevi sei proprio malvisto. Ti guardano storto anche i baristi: si chiedono cosa non va in te, provano a trovare una rassicurazione domandandoti se sei astemio e se rispondi di no non riescono a capacitarsi del fatto che hai ordinato una Coca Cola di venerdì sera. Diventi la pecora nera in mezzo a una bolgia di persone che deve avere il mojito in mano o lo spritz, per chiacchierare, ridere, divertirsi. È un po’ questo uno dei grandi problemi della nostra società, no? La quantità di alcool come metro di giudizio del divertimento. Ho amiche che non concepiscono una serata, una festa, senza buttar giù qualche alcolico. Non necessariamente per ubriacarsi a tutti i costi, magari solo per fare qualcosa, tenersi le mani occupate.

Questa cosa delle mani occupate è forse il problema centrale. Se hai un calice o una sigaretta in mano, stai facendo qualcosa. Non sei semplicemente impalato fuori da un bar, un pub, una discoteca. Tu fumi, tu bevi. Se vuoi chiacchieri, se non vuoi, sei comunque impegnato. È forse la cosa che ho sempre invidiato ai fumatori, questa del sentirsi occupato anche nel mezzo di una serata vuota. Per fortuna poi hanno inventato gli smartphone, e allora uno può smanettare da solo e sentirsi attivo cazzeggiando. Certo, si è persa una buona parte di socialità, ma almeno la gggente non sarà mai additata come sfigata e sola.

Sia chiaro, non ho smesso di bere, ma a differenza di un tempo una birra o un bicchiere di vino me lo concedo se ne ho davvero voglia e non per imposizione sociale. La cosa che più mi fa sorridere è che questo mio centellinare una sana bevuta, ha comunque indotto negli altri il pensiero che io sia astemia, seguace di un salutismo estremo e quindi anormale, tanto da suscitare esclamazioni di stupore quelle volte che mi si vede bere una birretta. Per quanto il mio atteggiamento possa sembrare guidato da un moralismo spicciolo, in realtà rimane il frutto di una attenta riflessione sulla convivialità moderna. La sigaretta, lo spritz, sono solo sovrastrutture. Schermi che le persone usano per darsi forza e coraggio. Libertà fasulle. L’happy hour, l’aperitivo lungo, le feste, avvallano ed esaltano questa debolezza mascherata da figata. E, alla luce della mia esperienza, trovo angosciante che ancora non esista una reale alternativa alla dittatura del bere sempre, ovunque, comunque. Che addirittura i momenti culturali come il VinItaly o altre manifestazioni enogastronomiche alla fine si risolvano tutte in “bever, bever, bever”, per poi aggiustare il tiro con campagne tipo “bevi consapevole”. Ma dove? Ma cosa?

Mi rifiuto di farmi trascinare in tutto questo.

Perché vivo male ad agosto

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Agosto non mi è mai piaciuto.

Sono sempre stata una persona poco socievole, estroversa solo dopo una lunga incubazione, solitaria di natura e spesso spensierata per forza. Da piccola l’estate mi gettava nello sconforto perché scardinava la mia routine scolastica, le mie piccole certezze quotidiane fatte di lezioni e compiti, lasciandomi una cosa che adesso tutti bramano e desiderano, ma all’epoca mi spaventava: il tempo libero. Giornate da gestire come vuoi, ozio senza vergogna, libertà. Non che non apprezzassi queste cose, solo avevo poche persone con cui spassarmela davvero, con cui godermi questo tempo, unito a un carattere che mal si presta all’improvvisazione.

La mia migliore amica mi abbandonava per almeno due terzi dell’estate, dividendosi tra le sue case in villeggiatura con amici di famiglie bene lontanissime dalla mia realtà, mentre io potevo contare su qualche settimana di mare assieme alla mia famiglia. Il mio programma estivo terminava a luglio.

Agosto quindi era il mese più tremendo. Rimanevo in città, ma la maggioranza dei miei amici no. Ero sola, più del solito.

Con gli anni la mia vita è cambiata, ma non il mio approccio a questo mese. Lo trovo di una malinconia insopportabile. Il caldo diventa bollente e per me ingestibile. È un limbo desolato in attesa di settembre, il mese dei rientri, dei buoni propositi, del fermento, di tutto ciò che è attività umana, ricca, prolifica, frenetica. Per quanto io sia una persona tendenzialmente pigra, odio l’inattività. Vivendo nell’(ex?) ricco e produttivo Nordest, potete solo immaginare quanto senso di colpa aleggi sopra le persone che non fanno o che si ritrovano a non poter fare.

So benissimo che agosto per tanta gente è il mese della gioia, delle sudatissime ferie, del premio alle proprie fatiche. È sogno, dolce far niente, monotonia adorata di giornate da conquistare facendo cose che negli altri mesi ti sono negate per mille motivi. Sono consapevole dell’importanza che ha questo mese per il resto del mondo.

Eppure io non vedo l’ora passi veloce, che l’aria fresca dell’autunno torni sul mio viso, che il sole si faccia meno assassino, che il tempo diventi gestibile, che questa inquietudine estiva mi abbandoni.

Riflessioni estemporanee di una senzalavoro

A lamentarsi nei momenti di crisi si fa sempre brutta figura.

A lamentarsi perché quei tre miseri lavori che ti offrono sono gratis sei poco riconoscente, perché… vuoi mettere la vetrina che avrai? Che trampolino che ti offrono? Anche se sotto vedi un precipizio, più che una limpida e rinfrescante piscina.

A lamentarsi ci si abbruttisce e si rovinano i rapporti umani, perché nessuno ama sentire le lamentele altrui, specialmente se ripetute a più riprese.

A lamentarsi si scatenano orribili frasi di circostanza.

A lamentarsi ci si accartoccia su sé stessi.

A lamentarsi perché non trovi lavoro sei ridicola, perché magari non ti impegni abbastanza, perché forse è colpa tua, perché forse sei tu che te la sei voluta. Mi hanno detto: “Beh, in fondo quando hai scelto di studiare nel ramo umanistico immagino te lo aspettassi, di rimanere disoccupata”. Come una cosa normale, ovvia, e noi laureati in lettere, storia, filosofia siamo tutti una massa di idioti privi di pragmatismo, non al passo coi tempi, fuori dal mondo. E allora chiudetele, ste minchia di facoltà, e lasciate aperte Economia, Marketing, Informatica, che si fa prima.

A lamentarsi perché i pochi lavori che cerchi non sono adatti alla tua formazione sei patetica, ci vuole flessibilità, ma se ne dimostri troppa sei poco ambiziosa.

A lamentarsi perché vorresti fare ciò che vuoi nel posto in cui sei sembri ottusa e piccola.

A lamentarsi perché hai paura di non sapere più quanto vali e se vali sei codarda, anche se ad ogni curriculum cestinato ti sembra di non saper più chi cazzo sei e quanto sai.

Non ho consigli e non ho scritto tutto questo per averne. Le persone si sentono sempre in diritto di confessarti la loro verità sulla vita quando dimostri debolezza, e so che con questo post, se mai qualcuno leggerà ancora questo blog, attrarrò i soliti maestrini pronti a insegnarmi come si cambia, come si affrontano i momenti di sconforto, come si tirano fuori le unghie, come non ci si lamenta, appunto.

Io però non ho scritto per voi, che immagino al riparo sulla sponda del fiume. È solo uno sfogo per me e per quelli come me che, nonostante abbiano imparato a nuotare, stanno annaspando in mezzo all’acqua.

After Earth, impressioni a caldo

ImmagineQuesta sera ho rotto un tabù: per la prima volta sono andata al cinema da sola.

Ho visto After Earth di M. Night Shyamalan, che è anche uno dei miei registi preferiti. Scrivo qui e di getto qualche considerazione sparsa, magari più avanti metterò a posto le mie riflessioni per farne una critica più accurata (io lo dico, poi magari non succede eh). Ah, ovviamente inserirò spoiler qui e là, quindi chi non vuole rovinarsi il finale e bla bla non legga.

  •  La tematica è in perfetto stile shyamalaiano. Per chi avesse visto The Happening, beh, si può dire che potrebbe esserne il sequel.
  •  Un mio amico, Sandro, ha definito After Earth come il gratest hits di Shyamalan. Non gli dispiacerà se lo cito: “C’è un ragazzino alle prese con: la gente morta, l’asma e gli alieni, l’invalidità, gli scrunt (l’aquila invece lo salva), la cecità, le tossine nell’aria. se non è un greatest hits questo…”. Cazzo sì!
  • Will Smith non è un granché a recitare e nemmeno suo figlio. Ma la storia è bella e tutto sommato non serve una grande espressività nell’interpretarla, soprattutto perché già le inquadrature fanno metà del lavoro. Non dimentichiamoci che in quella figata di Lady in the water ha recitato lo stesso Shyamalan, che non è certo ricordato come attore sopraffino. Rimane un bell’uomo comunque, ma questa è un’altra storia.
  • James Newton Howard è una garanzia.
  •  Questo non è un film sul rapporto padre/figlio, nonostante tutto sia stato pompato per farlo pensare, dagli stessi Smiths ovviamente. D’altronde è evidente come andrà a finire la loro relazione già dai primi fotogrammi. Questo è un film sulla paura, o meglio sul non averla. Sul non farsi sopraffare nonostante tutto lotti per annientarci. Come sempre la maggior parte delle persone si sofferma sulla trama sci-fi e non sulla sottotrama. Che poi tanto sottotrama non è, visto che sta cosa del non aver paura la tirano fuori praticamente in ogni battuta. Ma è come con Signs, dove tutti guardano agli alieni e a come sono fatti male, e non vedono al di là, agli altri segni del film. Quelli che non parlano di alcun extraterrestre, ma che parlano di fede. E il bello è che Mel Gibson lo dice a chiare lettere nel suo celebre monologo con Joaquin Phoenix. Quando la maggioranza della gente (critici compresi) guarda i film di M. Night Shyamalan, vede il dito. E sì che lui la luna la indica chiaramente.

Basta una parola

ImmagineOggi per la prima volta ho detto ad alta voce davanti a della gente che faccio, tra le altre cose, anche la blogger. Mi sono vergognata un po’.

Quando cerchi lavoro ad un tratto inizi a definirti agli altri con termini che prima non avresti mai usato. Un po’ perché leggi negli annunci tante di quelle pseudo professioni che a un certo punto dici “però forse ho anch’io una formazione di account media manager social development” da millantare. Mettiamoci pure che io di mio non saprei nemmeno come definirmi, a parte “grumo di paranoie”, ma mi rendo conto che potrebbe suonare male. Ad un tratto comunque bisogna guardare dritti e utilizzare ogni mezzo per acquisire una parvenza di credibilità. Così una sera si finisce a descriversi come blogger e crederci pure. Tutto nasce dal desiderio impellente di etichettarsi, darsi un ruolo, specialmente se ancora un ruolo definito da una professione uno non ce l’ha realmente.  E niente, questa vicenda mi ha fatto sorridere.

Anche perché se arrivo nel 2013 a definirmi, tra le altre cose, una blogger, allora vuol dire che non solo è anacronistico definirsi così, ma è pure da sfigati. Senza contare che quando parlo di internet al di fuori di internet ogni frase è come dentro una bolla torbida e acquosa, diventando aliena al parlato.

In realtà però il risvolto della faccenda è tutt’altro che deprimente. Appena ho detto ad alta voce davanti a della gente la parola blogger, ho pensato subito che volevo scrivere qualcosa qui dentro, e magari sentirne l’eco. Mi dimentico troppo spesso di questa sensazione.

D!spersi

dispersiQuesta è un bella guida che consiglio ai cinefili hanno sempre l’ansia di perdersi qualcosa di fighissimo Bé, è così, ma almeno c’è un libro che vi può aiutare.

Dobbiamo farcene una ragione: non riusciremo mai a leggere tutti i libri pubblicati al mondo, così come non riusciremo mai a vedere tutti i film realizzati. Può sembrare un’ovvietà, tuttavia è un dramma che prima o poi ha tormentato i lettori e i cinefili più appassionati, me compresa. Una consapevolezza che nasce quando scopriamo l’interesse per libri mai sentiti prima, o recuperiamo casualmente pellicole di nicchia mai distribuite nel nostro Paese. L’epifania diventa folgorante: quante cose non conosciamo ancora, quanto ancora da vedere, leggere, ascoltare. Quanto poco il tempo a disposizione, anche solo per fare selezione!

Esistono per fortuna delle scorciatoie. Una di queste la offre il libro D!spersi – guida ai film che non vi fanno vedere, di Alberto Brumana, Carlo Prevosti, Sara Sagrati e Marco Valsecchi. È una raccolta che riunisce quei film che negli ultimi anni non hanno trovato distribuzione in Italia. Sono film letteralmente scomparsi, mai apparsi al cinema, mai pubblicizzati, eppure ben presenti nelle videoteche del resto del mondo. Un tesoro nascosto insomma, ingiustamente tenutoci lontano.

Gli autori lo premettono subito: qui la censura non c’entra. I motivi della non distribuzione sono molteplici, per lo più legati al profitto.

Il libro è una sorta di schedario diviso per generi: “I dispersi di registi celebri” (perché anche le opere dei più famosi possono scomparire nel nulla), “I dispersi sportivi”, “I dispersi con attori famosi”, “I dispersi di animazione”, i mockumentary, gli italiani, e tanti altri.

Per ognuna delle pellicole gli autori raccontano trama, critica, curiosità e motivazioni della sua non-distribuzione, il tutto attraversato da una nota ironica che offre alla lettura piacere e ritmo, per quanto questo libro sia in fondo di mera consultazione.

Al solito, dopo la lettura di D!spersi dovrebbe scattare in voi l’irrefrenabile desiderio di caccia, per accaparrarvi almeno uno dei titoli proposti e poter finalmente tirare una linea alla vostra lista immaginaria. Un film in meno disperso nel mondo, un film in più nella vostra vita.

Alberto Brumana, Carlo Prevosti, Sara Sagrati, Marco Valsecchi, D!spersi – guida ai film che non vi fanno vedere – Falsopiano Edizioni (€ 19,00)